Quando manca l’empatia: le ferite del cuore e dell’intelligenza
Ho parlato, nel precedente articolo sull’empatia, o meglio sulla sua assenza, dei pericoli e delle insidie legati alla mancanza di empatia nel rapporto genitore-figlio. Desidero oggi approfondire questo argomento, da molti sottovalutato o considerato di importanza accessoria, ma in realtà di fondamentale e imprescindibile in qualsiasi discorso riguardante la relazione e, in particolar modo, le relazioni di accudimento.
Una carenza significativa di rapporti empatici, soprattutto durante l’infanzia, la pre-adolescenza e l’adolescenza, può provocare nella persona delle vere e proprie ferite.
Esse sono riconducibili a una condizione di precarietà dell’amore ricevuto, sia essa effettiva o apparente: qualche volta può infatti instaurarsi nell’intimo di un soggetto un senso di insoddisfazione affettiva che lo induce a sofferenze in virtù della convinzione (apparente) di non aver avuto quanto egli esigeva in termini rapportuali.
Nella moderna società occidentale, in cui non si riconosce la giusta importanza alle emozioni e non si viene, di conseguenza, alfabetizzati ad esse, si è creato un clima di sottoalimentazione emotiva, causa di quella che H. Kohut, caposcuola della Psicologia del Sé, chiama la malattia psicologica caratteristica del nostro tempo. Questo “disagio” produce individui “blasé”, isolati, incapaci di intimità, anonimi, la cui vita è spenta, in autentica e priva di gioia.
Per Alfred Adler, che fu con Sigmund Freud e Carl Gustav Jung fondatore della psicologia psicodinamica, il malato è l’uomo che non è amato, che non è desiderato; colui che per questo motivo soffre di complessi di inferiorità e conduce un’esistenza di poco conto, centrata solo su se stesso.
Le ferite dell’intelligenza
Le ferite del cuore trattate sopra possono segnare la personalità di un uomo in modo talmente profondo da lacerare anche il tessuto connettivo dell’intelligenza, a ulteriore discapito di una buona qualità di vita. Come accade anche per le ferite del volere, ogni “vulnus” (ferita) rivela un’identica matrice, cioè la deprivazione nell’area che sovrintende alla capacità di amore empatico.
Le persone che nascendo recepiscono di non essere desiderate o amate, che subiscono cioè un deficit empatico, spesso avranno durevolmente alterate le matrici del senso, e un potere di significazione decisamente limitato. In seguito a questa esperienza, sorgono e si vivono situazioni di disagio, anche forte, che le persone avvertono e riconoscono più o meno consapevolmente.
Ciò si manifesta nel quotidiano come disagio esistenziale, percepibile come sentimento angosciante e fonte di profonda ansia e di vero e proprio spaesamento nel mondo. A livello intellettuale emerge l’incapacità di attribuire un senso a un qualsiasi bisogno metafisico: la persona tende a nascondere il disagio consegnandosi alle cose concrete e alla loro consolante, apparente “solidità”; la simulazione di significati piccoli-piccoli, talvolta inesistenti, maschera quella originaria e strutturata mancanza di senso fondante.
La mortificazione costante dell’intelligenza porta progressivamente una sorta di cecità e non fa intendere il nesso fra ciò che appare e la più vasta realtà autentica.
Il danno più grave prodotto dalla mortificazione dell’intelligenza si registra nell’impoverimento progressivo e profondo dell’immaginazione simbolica, che si sostanzia nella percezione dell’insensatezza di ogni realtà nella sua struttura simbolica. Tarpando le ali all’immaginazione intellettuale, la realtà diventa una fantasmagoria: l’esperienza perde i suoi contorni definiti e l’esistenza piomba in una spettrale adiaforia universale.
maria
13 Gennaio 2016 at 17:11Ho trovato i contenuti Interessanti e profondi. Grazie