Elogio (nostalgico) della strada
C’era un tempo in cui i bambini potevano godere di un luogo magico e singolare: la strada.
La strada era fatta di poche cose: asfalto, auto parcheggiate, un paio di pietre da cui ricavare i “pali” delle porte, qualche cancello bersagliato dalle pallonate dell’indimenticabile supersantos.
Già allora c’era il solito vicino brontolone, quello che non sopportava le grida dei ragazzi e si affacciava, chiassoso più di loro, per pretendere il silenzio in un regno che considerava proprio.
Per i più fortunati c’era il campetto, un fazzoletto di terra frutto di un’arbitraria delimitazione geometrica e caratterizzato niente di meno che dalla presenza di erba, una materia che di lì a poco sarebbe diventata preziosa. Il campetto era un luogo unico, nel quale ogni piccola banda di quartiere rivendicava un qualche diritto di proprietà. Questa operazione permetteva di invitare gli “altri”, gli stranieri, quelli della strada accanto, per disputare tornei di caratura internazionale.
Tali esili spazi, oltre che rappresentare dei baluardi della resistenza contro l’avanzata del cemento, davano luogo a contese di difficile soluzione per le quali si ricorreva spesso alle maniere forti. Altre volte compariva, all’improvviso, il più temuto degli invasori, il proprietario del terreno, e si assisteva allora un fuggi fuggi generale.
In un modo o nell’altro la strada era un luogo di esperienza denso di azioni, reazioni, passioni, gioie e delusioni. Per strada si cresceva! Accadevano tante cose – tutte rigorosamente nascoste ai genitori. Alcune, però, nonostante l’omertà diffusa, giungevano alle orecchie dei grandi sotto forma di misfatti, sui quali si abbatteva la scure della punizione.
Tante cose accadevano per strada, e ciascuna di esse era un mattone di esperienza prezioso per la crescita.
Cresceva il corpo, sempre in movimento, sempre alla ricerca di nuove armonie, impegnato nella fuga, nella foga del gioco, nella rissa, nelle arrampicate, nelle ricerche disperate di oggetti perduti, nelle pedalate veloci perché era già tardi e chissà quante ne avrebbe dette la mamma.
Cresceva la socialità, perennemente coinvolta in dissidi tra amicizie che si componevano e altre che si disfacevano, litigi e trattati di pace, delusioni e speranze, amori e odi, frustrazioni e grandi gratificazioni.
Crescevano le emozioni, tra pianti e risate, paure e gesti coraggiosi, tristezze e gioie, vittorie e sconfitte, grandi e piccoli dolori.
Cresceva l’intelligenza, sempre impegnata a risolvere problemi, calcolare aree, perimetri, divisioni di beni e bottini; sempre impegnata a cavarsela in qualche modo, per emergere integri dalle mille questioni che quotidianamente comparivano all’orizzonte: evitare pericoli, conquistare i propri spazi, nascondere le marachelle ai genitori, ricostruire un’amicizia perduta o chiuderne una troppo invadente.
La strada era uno spazio di vita.
La sua progressiva scomparsa, sostituita dalla tirannia degli spazi virtuali, ha portato via occasioni di crescita e di esperienza. I nostri bambini ipernutriti – anche perché si muovono poco, mentalmente apatici – perché privi di stimoli veri, chiusi nel proprio egocentrismo – e tra le quattro pareti del loro salotto, non avrebbero che guadagnare da simili spazi di esperienza, dal ritorno di un po’ di strada sana, sporca, meravigliosamente vera.